Bolo’bolo è un bar che è solo un bar. Bolo’bolo è il titolo di un libro strambo ma visionario sulla possibilità di vivere nel quartiere di una grande città fuori dalle logiche del consumismo, provando a creare “un nuovo modo diretto e personale di scambi sociali”. Il bolo è una comunità autonoma di un massimo di cinquecento persone, la dimensione di un villaggio, di una tribù, di una scuola: un numero abbastanza piccolo da permettere a tutti di avere familiarità l’uno con l’altro.
In una città che ha perso il senso delle cose – una città di plastica che produce ininterrottamente eventi vuoti – abbiamo cercato di concretizzare quest’immaginario nell’apertura di un locale, provando a riportare il bar  alla sua funzione originaria: tenere insieme le persone. 

Bolo’bolo è un bar che ha un banco. In una città ossessionata da fare tavoli ed essere in lista, da bolo’bolo il bancone è un elemento essenziale: la sua centralità risponde al tentativo di offrire un luogo dove incontrarsi e avvicinarsi, fianco a fianco, senza darsi le spalle. 

Bolo’bolo è un bar che fa il bar. Cioè facciamo drink con passione, con prodotti e ghiaccio di qualità, ma senza la retorica della mixologist o delle drink list instagrammabili. 

Bolo’bolo ha una cucina ma è pur sempre un bar. La cucina del bolo s’ispira alla cucina di casa: ogni giorno un piatto e un dolce, tutti i giorni dei piattini da condividere, e chips fatte al momento per l’apertitivo. Non facciamo tartarine, ciao ciao cucina stellata.

Bolo’bolo è in via Quadrio di fronte a una struttura razionalista (del 1938) semi abbandonata, sede di un ufficio governativo chiuso la notte: una via silenziosa in cui passano raramente le auto, nascosta ma facile da raggiungere, dove si può stare in piedi a chiacchierare con un bicchiere in mano. Cioè fare piazza.